Partecipazione alla Biennale di Architettura 2023, Venezia

Iniziativa pubblica

Data: 23 novembre 2023
Organizzato da: Fosbury Architecture, curatori del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura 2023, in collaborazione con Palazzo Grassi, Pinault Collection Venezia.
Luogo: Foyer del Teatrino di Palazzo Grassi, Venezia

Trascrizione del parlato.

Alessandro Bonizzoni, Fosbury Architecture

Questo progetto nasce un anno fa e parallelamente al Padiglione Italia abbiamo sviluppato un programma in cinque episodi, in collaborazione al Palazzo Grassi, con il supporto di Bottega Veneta che è lo sponsor del Padiglione e in particolare si è occupato con noi dell’organizzazione di queste giornate. Questo episodio si chiama Economies, una parola semplice ma complessissima, come abbiamo tentato di evidenziare in questa giornata che si compone di tre episodi. Questa mattina, insieme ai ragazzi dell’Insititute of Radical Imagination e di Biannalocene abbiamo iniziato a includere l’architettura nel più vasto campo dei lavoratori nella cultura, perché crediamo che molti come noi, molti come le pratiche che abbiamo portato all’interno del Padiglione Italia, abbiano a che fare più con il mondo della cultura e della produzione culturale che con quello dell’architettura nei contesti in cui operano, nei metodi in cui operano, negli interlocutori che hanno e nelle pratiche che sviluppano. Ora, con voi, parleremo concretamente di cosa voglia dire operare come architetto in Italia e più avanti ci sposteremo, dopo questo momento, qui nel foyer all’interno del teatrino e le ragazze di B+, insieme a HouseEurope, ci racconteranno come cambiare la struttura di un ufficio possa anche cambiare il modo di produrre l’architettura. Non mi dilungo troppo, ma voglio introdurre Salvatore Peluso che è guest curator della giornata. Salvatore è una giornalista freelance, un educator, un curatore indipendente, ha studiato architettura come tutti noi a Milano, tra Milano e Madrid; scrive per Domus, Lampoon, Elle Décor e collabora costantemente con Abadir Academy che è un’accademia a Catania per la quale ha sviluppato un programma di rigenerazione dei territori liminari con strategie transdisciplinari. E anche fondatore e grande driver di Dopo Space che è uno spazio per la ricreazione condivisa e la produzione culturale a Milano del quale abbiamo l’onore di fare parte come gruppo.

Salvatore Peluso, moderatore

Con questo ciclo di conferenze guardiamo al mondo dell’architettura attraverso la lente del lavoro e affermiamo che gli architetti sono prima di tutto lavoratori. Di questo, secondo me e secondo molti, c’è scarsa coscienza nella disciplina: della propria condizione, dei propri limiti ecc. Siamo partiti con Institute of Radical Imagination e Biennalocene contestualizzando il lavoro dell’architetto in un contesto più ampio. Le condizioni di lavoro degli architetti sono molto complesse, intricate e specifiche e, guardando al contesto generale vedremo se ci sono connessioni e alleanze con altri ambiti. Oggi abbiamo Alessandra Ferrari, coordinatrice del Dipartimento Cultura e consigliera nazionale del CNAPPC. Il CNAPPC è l’ente che rappresenta gli architetti in Italia e raccoglie 105 Ordini provinciali. Assieme a lei discuteranno Carlotta Ridolfo e Mauro Sullam di ULLARC, l’Unione Lavoratrici e Lavoratori in Architettura, un piccolo “sindacato” di architette e architetti che nasce dalla volontà di spostare l’attenzione dal prodotto architettonico alle condizioni di chi vi lavora. Leggendone il Manifesto, mi ha colpito particolarmente una frase: “non esiste sostenibilità dove il lavoro non è equo”. Mi sembra fondamentale guardare alle condizioni di lavoro per comprendere come possano cambiare la pratica e i risultati di chi fa l’architetto. Passo la parola agli ospiti chiedendo loro dati e fatti che contestualizzino il lavoro in architettura oggi.

Alessandra Ferrari, CNAPPC

Vi ringrazio innanzitutto dell’invito. Sono molto contenta di essere qui e l’ho fortemente voluto. Quando ero più giovane, il Consiglio Nazionale mi sembrava lontano e inarrivabile, una realtà con la quale era impossibile parlare e formata da persone sconosciute. In realtà il CNAPPC è formato da architetti che vogliono dare il proprio contributo per un mondo migliore.

In Italia, siamo 157.757 architetti, dato aggiornato proprio ieri: siamo tantissimi. Se considerate che siamo 620.000 in tutta Europa, noi siamo la nazione con più architetti in Europa. Siamo seguiti dalla Germania e dalla Turchia, ma tutti gli altri sono a calare. Se consideriamo che il rapporto architetto/committente e di 1 a 1000 in Europa, noi siamo a 2,5 a 1000 e in alcune zone d’Italia anche di più: anche 4 a 1000.

In Italia, il 73% degli iscritti sono lavoratori autonomi contro il 66% della media europea. Abbiamo però delle diversità abbastanza importanti poiché in Europa c’è un 18% di impiegati in generale e un altro 12% di quelli che chiamano “freelance”. In Italia invece siamo sul 19% di quelli che chiamiamo freelance e, di questi, il 5% lavora con un contratto di Partita IVA con più studi e il 14% lavora con un committente unico. Abbiamo poi un 22%, quindi un numero importante, tra insegnanti e dipendenti in altre istituzioni (comuni, provincie ecc.). La fotografia che abbiamo è molto variegata. Facciamo anche un lavoro molto variegato: già il nome, “architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori”, introdotto dal DPR 328/2001, ha forse complicato un po’ la percezione del nostro lavoro. C’è la difficoltà di abbracciare una professionalità che va estendendosi, di dover comunicare cosa fa l’architetto, e quindi inquadrarlo in quanto stabilito dalla norma di legge.

Sempre facendo il confronto con l’Europa – Nord Europa e Sud Europa sono molto diversi, e noi siamo più simili al Sud Europa – abbiamo un reddito medio di 37.000 euro in Europa, mentre il nostro reddito medio è di 26.500 euro, ed è anche aumentato: siamo passati negli ultimi anni da 23.500 euro a 26.500 euro; questo aumento è legato a quello dell’occupazione, all’ultimo periodo dei “bonus” e a una favorevole riconsiderazione del nostro ruolo dopo il periodo pandemico. I “bonus” hanno un po’ falsato le statistiche: il 40% degli architetti si è occupato di “bonus 110%”, il 25% di “bonus facciate” ecc.: si tratta di un mercato importante, come rilevato dal CRESME. Il CRESME, restituendo dati leggermente superiori rispetto a ISTAT, ha rilevato un 66-70% di crescita del mercato delle costruzioni negli ultimi tre anni, dunque una crescita veloce e quasi abnorme.

D’altro canto, mentre nell’ultimo decennio abbiamo avuto un calo di iscrizioni all’albo (iscrizioni in crescita fino al 2014, in calo dal 2014 al 2020 arrivando a circa 153.000 iscritti), dal periodo post-pandemico le iscrizioni sono cresciute e adesso siamo 157.000. Anche questo è un dato rilevante: c’è più lavoro, più colleghi si iscrivono all’albo.

Anche sui numeri ci sarebbe da fare una precisazione: per le statistiche europee, in ogni stato vengono svolti dei questionari e i dati vengono poi inviati in Europa, ma i risultati sono condizionati dal numero di risposte ricevute.

Mauro Sullam, ULLARC

Aggiungo solo qualche nota al tuo quadro. Come Unione Lavoratrici e Lavoratori in Architettura abbiamo riconosciuto fin da subito che non sono solo le architette e gli architetti iscritti agli Ordini Professionali a lavorare negli studi di architettura, dunque la prima difficoltà che si affronta nel ricostruire il quadro lavorativo di studi e società di progettazione è proprio il fatto che non si può passare solo attraverso gli Ordini; molte colleghe e colleghi di studio vengono da facoltà di design, accademie e altri percorsi formativi diversi da quello canonico. In futuro, bisognerà arricchire il panorama della ricerca e della raccolta di dati oltre a quello che ci possono fornire gli Ordini.

Noi ci siamo rifatti al rapporto del 2021, l’ultimo disponibile pubblicamente, che segnalava come dal 2010 al 2021 le iscrizioni alle facoltà di architettura (o assimilabili) si fossero più che dimezzate; nel rapporto si parlava anche del fatto che, malgrado noi abbiamo il più alto numero di architetti in Europa, la professione sta vivendo una condizione definita di “invecchiamento strutturale”, per cui architette e architetti sotto i 40 anni costituiscono solo circa il 30% degli iscritti. Inoltre, c’è uno sbilanciamento della popolazione professionale sulle aree metropolitane: le aree di Roma, Milano, Napoli e Torino raccolgono circa il 30% degli iscritti. Proprio in queste aree metropolitane si concentrano molti degli studi che saranno in parte oggetto della discussione odierna, cioè quei famosi studi che, a fronte di un alto numero di collaboratori che può raggiungere diverse centinaia di unità, hanno solo uno, due, dieci lavoratori dipendenti.

Per quanto riguarda il reddito, nel rapporto viene segnalato come, dopo cinque anni di lavoro, le donne arrivano mediamente a 1.330 euro lordi mensili e gli uomini a 1.530 euro mensili e quindi, se pensiamo soprattutto alla difficoltà che le popolazioni metropolitane devono affrontare per quanto riguarda il costo dell’alloggio e le altre spese, si tratta sicuramente di compensi non adeguati, anche a fronte dell’onerosità della carriera universitaria: fatte salve le fasce di reddito in cui si dividono le rette, esistono tante altre spese che vanno dal materiale di consumo ai libri, ai viaggi ecc. Non è una facoltà facile, e anche a partire da questa difficoltà – ne parlavamo nel nostro tavolo sul lavoro migrante con il gruppo dei Non Swiss Architects – in molti paesi europei i compensi medi sono più alti poiché considerano lo sforzo economico che gli architetti hanno dovuto sostenere per formarsi.

Salvatore Peluso, moderatore

Volevo tornare al Consiglio Nazionale e agli ordini provinciali, perché è importante capire cosa fanno, come si strutturano, qual è il loro ruolo e cosa promuovono a livello culturale e non solo.

Alessandra Ferrari, CNAPPC

Gli ordini sono 105 e sono divisi territorialmente: si va da ordini con 250 iscritti, ai 12.000 di Milano o i 18.000 di Roma. Gli ordini sono stati costituiti il 24 giugno del 1923, e dunque quest’anno abbiamo festeggiato il centenario. Ho detto “festeggiato” apposta perché per gli ordini è stata l’occasione di aprire una riflessione sulla necessità di rivedere una legge che data del 1923. Perché sono stati fondati? Perché la nostra professione era ibrida: studiavamo nelle scuole d’arte o in quelle di ingegneria, perché non esistevano facoltà di architettura. Nel 1919, con la prima facoltà di Roma, i colleghi hanno sentito la necessità di sviluppare una propria identità e riconoscibilità. Ci sono stati dibattiti tra schieramenti più “liberisti” al Nord e più desiderosi di un inquadramento istituzionale altrove: alla fine ingegneri e architetti sono nati come una professione ordinata nel 1923.

L’ordine nasce a tutela della collettività, perché il nostro patrimonio valoriale come professionisti sta sia nelle nostre capacità tecniche (sia scientifiche che umanistiche, nel nostro caso di architetti) sia nell’aderenza a un codice etico e comportamentale, cioè il codice deontologico. La collettività sa che noi aderiamo a questo codice che esiste da cento anni. L’ordine nasce per far rispettare questo codice, nasce per tenere l’albo degli iscritti e, dall’introduzione delle leggi europee in materia, garantisce anche che ci sia formazione. Ma l’ordine fa in realtà molto di più, perché agisce a livello territoriale. Noi li chiamiamo i “presidi di cura del territorio” perché ogni ordine è un’antenna sul territorio, che spesso ha rapporti con le amministrazioni, che evidenzia a livello territoriale migliorie e problematiche che nascono dalla pianificazione, dai processi normativi o ancora dai problemi urbani e da quelli sociali. Non tutti gli ordini hanno le stesse modalità: gli ordini di confine hanno determinate problematiche, gli ordini con un waterfront ne hanno di diverse da quelli centrali, gli ordini con più nuclei montani altre ancora ecc. Ognuno con le proprie diversità, tutti si occupano di trattare gli argomenti relativi alla nostra professione, che è una professione al servizio di tutti: ogni volta che progettiamo un pezzo di città o di edificio, noi progettiamo un pezzo di pianeta, e quindi le nostre scelte si riverberano in maniera molto estesa.

Gli ordini curano anche molte iniziative: se voi guardate i loro siti istituzionali, vedrete iniziative di coinvolgimento del territorio. Per fare un esempio, l’Ordine di Bergamo ha lanciato una piattaforma di raccolta dei desideri delle persone per la rigenerazione dei luoghi abbandonati: questo poi si trasforma in proposte da fare alle amministrazioni. Gli ordini promuovono moltissime iniziative di formazione e moltissime iniziative di diffusione dell’architettura: conoscere il proprio territorio e i valori dell’architettura aiuta a cambiare la domanda di architettura, poiché non sempre la domanda è pronta a richiedere l’architettura. Le persone spesso non sanno distinguere cosa sia architettura e cosa no: anche educare la domanda di architettura è importante. Gli ordini hanno anche un dialogo con le scuole, per un lavoro di costruzione di sensibilità nelle nuove generazioni, perché dalle nuove generazioni si passa alle famiglie facendo un lavoro sulla collettività.

Gli ordini hanno al proprio interno i consigli di disciplina ai quali ci si può rivolgere se si ritiene che ci sia un comportamento non corretto da parte di colleghi che agiscono in maniera non aderente al codice deontologico.

Cosa fa il Consiglio Nazionale? Il consiglio nazionale è formato da 15 architetti (alcuni docenti, altri liberi professionisti: un panorama variegato). Siamo suddivisi in dipartimenti: il dipartimento dei lavori pubblici, che segue maggiormente i lavori pubblici e la parte concorsuale; il dipartimento cultura si occupa di promuovere la figura dell’architetto attraverso diverse iniziative; il dipartimento università, che si occupa dei rapporti fra ordini e università (ora, ad esempio, si sta occupando della nuova legge sulle lauree abilitanti); e poi altri dipartimenti.

Il Consiglio Nazionale tiene i contatti con le organizzazioni internazionali: il CAE – Consiglio Europeo degli architetti – e l’UIA – Unione Internazionale degli Architetti. Con queste organizzazioni c’è un lavoro di confronto: i dati di cui vi dicevo servono per avere una misura di ciò che accade a livello europeo e internazionale.

Il Consiglio Nazionale è un’emanazione del Ministero della Giustizia e funge da magistratura di secondo grado: chi ritiene di aver ricevuto una sanzione per infrazione del codice deontologico inadeguata, può ricorrere in Consiglio Nazionale (il terzo grado è costituito dal Consiglio di Stato). Attraverso le conferenze degli Ordini, raccogliamo le istanze che provengono da tutto il territorio nazionale, che sono ad esempio istanze di modifica normativa, oppure riguardanti la professione, e le trasformiamo in emendamenti. Non possiamo legiferare, ma chiediamo delle udienze presso i Ministeri, facciamo degli emendamenti, usciamo sulla stampa ecc. Svolgiamo dunque una funzione politica, oltre a quella di mantenere l’albo unico italiano e occuparci di magistratura di secondo grado.

Salvatore Peluso, moderatore

Mentre il Consiglio Nazionale e gli ordini hanno una storia centenaria, ULLARC è un’unione nata da pochissimo. Mentre il Consiglio Nazionale si occupa di tutta una varietà di questioni, voi dell’Unione avete preso le mosse da esigenze abbastanza specifiche: non coprite tutto il campo di ciò che fa un architetto, ma vi occupate di questioni prettamente legate al lavoro. Chiedo dunque all’Unione di raccontarci da quali esigenze è nata e come si sta strutturando, come funzionano le decisioni interne e che proposte porta avanti.

Carlotta Ridolfo, ULLARC

Nasciamo ufficialmente a marzo del 2023, dunque non abbiamo neanche un anno. L’occasione ufficiale è stata la presentazione del nostro Manifesto Aperto in occasione di un evento presso la Triennale di Milano. Il Manifesto condensa l’idea che noi vogliamo portare avanti: il contrasto alla svalutazione del lavoro in architettura, non solo per gli architetti iscritti all’albo ma per tutti quelli che in qualche modo curano la creazione dello spazio. Questa svalutazione nasce principalmente da dinamiche di sfruttamento, di auto-sfruttamento, di compressione dei tempi di lavoro. Vogliamo dunque spostare l’attenzione dall’architettura intesa come risultato, come prodotto, come spazio costruito, all’architettura intesa come processo lavorativo e sociale. Ci siamo interrogati sull’impossibilità di avere un’architettura sostenibile nel momento in cui essa è il prodotto di un processo insostenibile, perché chi produce lavora in condizioni non tutelate. Questo manifesto è stato il punto di partenza trasversale che ha unito diverse condizioni lavorative, perché all’interno del nostro gruppo operativo non ci sono solo le famose “finte partite IVA” ma anche liberi professionisti, c’era fino a poco fa una neolaureata ecc. Ci sono liberi professionisti che a breve si troveranno “dall’altra parte”, cioè avranno la necessità di assumere collaboratori e non hanno intenzione di farlo in queste condizioni.

Come siamo strutturati? Al momento c’è un gruppo operativo di circa dieci persone sparse tra Venezia, Torino, Udine, Milano e Roma. Sulla base dei nostri incontri, che avvengono almeno settimanalmente dopo la giornata di lavoro, abbiamo promosso una serie di iniziative pubbliche, che per noi sono fondamentali per ascoltare, sensibilizzare e far prendere coscienza, come abbiamo dovuto fare noi quando abbiamo iniziato a interrogarci su questi problemi. Ci siamo conosciuti online, senza che tra di noi ci fossero rapporti pregressi.

Le iniziative pubbliche sono già state diverse: siamo arrivati fino a Palermo. Accanto a queste iniziative, stiamo portando avanti il progetto “Lavorare in architettura”: si tratta di nove tavoli di lavoro tematici. Essi nascono principalmente dal riconoscimento di non poter affrontare una situazione incredibilmente complessa in maniera semplice. Prendendo coscienza delle mille sfaccettature implicate dal lavorare in architettura attualmente, proponiamo nove tavoli. Alcuni sono già partiti, altri partiranno la prossima settimana.

E’ possibile che dal basso, già oggi, ci siano dei miglioramenti nei singoli studi professionali, ma è fondamentale sensibilizzare le istituzioni: esse devono assumere coscienza dei problemi e promuovere dei cambiamenti normativi. Attraverso i tavoli di lavoro, speriamo di arrivare al confronto con le istituzioni sempre più preparati, proprio per sviluppare strumenti e proposte che possano essere portate ad altri livelli. I tavoli al momento proposti sono: giovani ed equo compenso; verso un contratto nazionale, pianificazione e tariffe nella libera professione; lavoro migrante; università e lavoro; gare e concorsi; parità di genere; benessere lavorativo; oltre gli ordini professionali.

Salvatore Peluso, moderatore

Già solo approfondire uno solo dei temi proposti nei tavoli di lavoro prenderebbe molto tempo… in questa sede, vogliamo oggi parlare del tema delle “finte partite IVA”, cioè dell’uso improprio della partita IVA. Questo tema è uno dei maggiormente discussi negli ultimi anni. Oggi vorremmo far capire ai presenti di cosa stiamo parlando e quali sono i passi che si potrebbero fare per affrontare la questione.

Mauro Sullam, ULLARC

Forse preferiamo parlare di “falsi autonomi” e non di “finte partite IVA”, perché le partite IVA sono vere mentre l’autonomia del lavoratore lo è un po’ meno. Quello che per noi identifica maggiormente cosa sia una lavoratrice o un lavoratore falso autonomo sono le condizioni di eterodirezione ed etero-organizzazione del lavoro: qualcuno, che può essere il tuo responsabile o il titolare dello studio, decide cosa farti fare, come fartelo fare, con che tempi, con che priorità. Sei parte di un’organizzazione, che tendenzialmente è anche un’organizzazione gerarchica, assolutamente assimilabile a un’organizzazione aziendale a prescindere dalla quantità di persone che lavorano in uno studio o una società di progettazione. Ovviamente, più il numero di persone cresce e più siamo in presenza di un’organizzazione articolata che inizia a dividersi in dipartimenti, in team di lavoro ecc.; ma è un principio che rimane vero nella propria essenza anche in uno studio di cinque persone.

Questo per noi è ciò che configura la sostanziale perdita di autonomia del lavoratore e impedisce di parlare di lavoro autonomo. Diversamente, i criteri temporali o di fatturato – fatturi l’ottanta per cento dei tuoi lavori allo stesso committente; passi quasi tutto il tuo tempo a lavorare per un solo committente – sono dei criteri meno significativi: ci sono ad esempio tanti studi che per un determinato periodo lavorano per un committente prevalente, e nessuno si sogna di dire ai titolari di questi studi che sono dei falsi autonomi. Dal nostro punto di vista, dunque, pesano molto di più l’eterodirezione e l’etero-organizzazione del lavoro rispetto ai criteri di tempo e di fatturato. Per quanto riguarda la sede e gli orari di lavoro, siamo perfettamente consapevoli che con la digitalizzazione la smaterializzazione del lavoro, lavorare fuori dallo studio è sempre più facile e sempre più frequente. Ci sono anche delle sentenze che non riguardano in specifico il settore dell’architettura ma altri settori che hanno vissuto dei fenomeni di precarizzazione del lavoro e di falsa autonomia, in cui si è dimostrato che attraverso piattaforme digitali che organizzano riunioni, agende e appuntamenti; attraverso l’accessibilità sempre più facile ai server remoti ecc., io posso vivere una condizione di non-autonomia, essere perfettamente inserito all’interno di un’organizzazione e non dover frequentare lo studio. Addirittura, posso utilizzare il mio computer e farci installare software aziendali: ci sono quindi mille modi perché si configuri a distanza, nel tele-lavoro o “smartworking”, una condizione di falsa autonomia.

Per noi, quello delle false autonome e dei falsi autonomi è un problema politico e un problema di tutele: anzi, iniziare la frase dicendo “per noi” è forse un po’ fallace, perché in realtà siamo di fronte a una condizione di fatto, che non è stata inventata né dall’Unione né dal Consiglio Nazionale, che è davanti agli occhi di tutti noi, e cioè che l’organizzazione del lavoro in architettura, per motivi molto complessi e che si radicano in una storia di decenni, è cambiata. È un lavoro sempre più complesso, sempre più collettivo, sempre più interlacciato ad ambiti che si compenetrano fra di loro, da quello normativo a quello energetico, a quello compositivo, alla ricerca sui materiali… affrontare un progetto di architettura oggi richiede una quantità di competenze molto vasta, ed è fisiologico che di fronte a questa complessità gli studi si strutturino come aziende.

Ci sono sicuramente delle leve che fanno rimanere molti di noi all’interno del regime di partita IVA falsa autonoma: una leva fiscale e una leva previdenziale. Più passa il tempo, più la soglia massima per rimanere all’interno del regime forfettario – sostanzialmente una “flat tax” – si alza, e quindi occulta sempre di più le differenze di classe che stanno all’interno di questo mondo della “flat tax”, che ormai si applica a fatturati che arrivano fino a 85.000 euro (dai 30.000 euro iniziali del regime dei minimi sono passati appena quindici anni). Oggi in Italia, che uno guadagni 15.000 euro o 75.000, sta dentro al forfettario. C’è poi un vantaggio previdenziale (che sarà senz’altro oggetto dei nostri tavoli di lavoro perché va studiato e approfondito) nello stare con Inarcassa invece che con INPS.

Abbiamo sentito molte colleghe e colleghi dire “tutto sommato a me va bene stare all’interno del regime di partita IVA; vorrei solo che ci fossero dei rapporti più trasparenti”. Il vero problema è la condizione di chi inizia: in nome di questa agilità fiscale e previdenziale da una parte, e dall’altra di un trasferimento sulla componente sociale più povera del rischio d’impresa, si è fatto un larghissimo uso della falsa autonomia, nascondendo completamente la subordinazione di fatto che tantissime architette e tantissimi architetti (e lavoratrici e lavoratori in generale) subiscono. Questo ha disintegrato la possibilità di una contrattazione collettiva. In Italia, non c’è un riferimento collettivo di compensi minimi e di tutele minime che possa aiutare le giovani e i giovani (e in generale chi inizia, perché non tutti iniziano da giovani): in Italia c’è il Far West. Su questo il Consiglio Nazionale, gli Ordini, Inarcassa, i ministeri… tutti devono non solo aprire gli occhi ma agire il più in fretta possibile, e noi agiremo come un gruppo di pressione molto determinato. Abbiamo già iniziato ad interloquire con alcuni Ordini, e in certe situazioni ci viene detto: “avete ragione ma gli Ordini non possono fare nulla”; “gli Ordini non sono un sindacato” ecc. La nostra risposta è che essi sono delle istituzioni pubbliche, e quindi devono rispondere alla Costituzione, la quale insiste sull’accessibilità sociale del lavoro. Dunque, queste istituzioni dovrebbero iniziare a fare delle dichiarazioni molto chiare in merito al netto riconoscimento dell’esistenza di una larghissima componente di lavoro subordinato occulto – occulto non si sa per chi, in realtà… – e, a partire da questa presa di posizione, cominciare a costruire un percorso di emancipazione da questa condizione.

Salvatore Peluso, moderatore

Ti interrompo per chiedere ad Alessandra quale sia la sua prospettiva rispetto a questo. La domanda successiva è cosa si può fare insieme: continuare questo dibattito, continuare il discorso sulle proposte, su come confrontarsi per cercare di migliorare la situazione.

Alessandra Ferrari, CNAPPC

Cosa può fare l’Ordine e cosa può fare il Consiglio Nazionale? È vero, noi non siamo un sindacato, e su questo non ci piove; non siamo una cassa previdenziale (esiste una cassa di tipo privato che peraltro gode di ottima salute, alla quale ci si può rivolgere per tutto quello che riguarda la questione assistenziale). Però non è vero che l’Ordine non fa: l’Ordine, sensibilizzato, ha cominciato a fare. L’Ordine di Milano, che è un Ordine grande e strutturato, si è mosso a partire da alcune segnalazioni (esiste un codice deontologico per cui se qualcuno si comporta diversamente da quello che dice l’articolo 21 del codice, si può fare una segnalazione all’Ordine). Oltre a questo, per risolvere il problema al di là della segnalazione, l’Ordine di Milano ha organizzato dei tavoli tematici e lunedì prossimo ci sarà la presentazione di questo percorso; a uno di questi tavoli ha partecipato anche un consigliere nazionale, benché fosse l’iniziativa di un singolo Ordine. La documentazione che ha prodotto è questo vademecum che poi sarà arricchito anche degli altri tavoli. Il primo vademecum pubblicato spiegava a tutti quali sono i limiti dell’utilizzo di questo strumento della partita IVA in maniera impropria.

Lo strumento della partita IVA, quando viene utilizzato correttamente, ha dei lati positivi e dei lati negativi. Se viene utilizzato correttamente, il collega ha la possibilità di fare diverse tipologie di lavoro; ad esempio, c’è chi insegna per una parte della giornata e, per l’altra parte, collabora con uno studio o con più studi; c’è che preferisce avere più libertà… io stessa ero assunta, ho lasciato l’assunzione e sono passata alla partita IVA. Scelta: scelta di libertà, di poter avere più possibilità. Giusta o sbagliata che sia, è una scelta che si può fare nel momento in cui però viene utilizzata correttamente. Il limite fra uso corretto e uso scorretto della partita IVA è molto sottile. Sull’equo compenso esiste addirittura, e per fortuna, una norma appena uscita: inquadrare il compenso entro degli schemi è senz’altro una possibilità, una possibilità che può essere costruita, benché sappiamo che gli iter normativi sono molto lunghi e complessi. Io non vedo controindicazioni a seguire questa strada. Bisogna però capire cosa può fare un Ordine: lavoro di sensibilizzazione, costruzione di tavoli, condivisione, raccolta di stimoli, confronto con tecnici ed esperti che possano dare consigli su come è meglio affrontare la materia, su quali sono le possibili soluzioni. È un lavoro già iniziato da parte di un Ordine e non vedo controindicazioni a proseguirlo. Possono essere proposte, all’interno degli Ordini, anche soluzioni alternative: su questo mi sento di dire che se serve per chiarire delle posizioni, per chiarire un comportamento corretto in merito a uno strumento che può o meno essere utilizzato, secondo me più chiarezza e consapevolezza ci sono nell’utilizzo, più si evitano le situazioni difficili.

È chiaro che si tratta anche di una questione di mercato: la questione del compenso economico deriva anche da una situazione di mercato generalizzata; deriva anche da volontà politiche… chiacchierando prima di iniziare questo dibattito, dicevo: “sapete quanti architetti ci sono tra deputati e senatori? Ce ne sono 17”. Dobbiamo avere più forza, essere più uniti, impegnarci di più dal punto di vista politico e dobbiamo contare di più. Se all’interno di un parlamento siamo 17, facciamo fatica a portare avanti le nostre istanze con la stessa rapidità che caratterizza altri gruppi. Dobbiamo lavorare di più in questo senso.

Salvatore Peluso, moderatore

Questa mattina, abbiamo visto come i ragazzi dell’Institute for Radical Imagination abbiano scritto una carta paragonabile al vostro Manifesto, in cui si fissano dei punti e delle linee a livello normativo ed economico. Abbiamo anche discusso di come loro si siano rivolti a delle istituzioni, portando delle istanze partite dal basso, con l’idea che se certe grandi istituzioni iniziano ad accettare queste istanze, la loro diffusione si faccia più semplice. Voi dell’Unione come pensate di agire?

Mauro Sullam, ULLARC

Attraverso le nostre iniziative pubbliche e attraverso i tavoli di lavoro, non ci siamo mai dati alcuna preclusione al dialogo. Anzi, per noi il dialogo è una pietra fondante della nostra azione: dialogo per noi significa prima di tutto dialogo con lavoratrici e lavoratori, che incontriamo attraverso mail, telefonate, incontri in presenza… la prima operazione è un’operazione di ascolto, diffusa, quotidiana, dal basso, perché le storie non le inventiamo ma semplicemente le ascoltiamo. Non ci precludiamo però il dialogo su altri piani: sul piano istituzionale, sul piano politico ecc. Noi oggi ci troviamo qui, così come ci siamo trovati al cospetto di altri Ordini, di università, sindacati del lavoro atipico, piazze pubbliche con organizzazioni politiche… in pochi mesi ci è capitato di frequentare tante persone, tanti spazi, tante situazioni: con questi rapporti concreti stiamo cercando di costruire, pian piano e prima di tutto, la possibilità di un dialogo basato proprio sulla conoscenza delle persone, delle situazioni e del lavoro che ci sta dietro. Il grande “abbordaggio” che ancora ci manca è con Inarcassa, ma ci stiamo lavorando… arriveremo anche da loro!

Faccio infine due brevissime note a margine che però trovo molto importanti: la prima nota riguarda il fatto che nel 2015 una piccola clausola inserita nel Jobs Act ha avuto conseguenze importanti per i professionisti iscritti agli Ordini, in quanto li esclude dalla possibilità di riqualificare un rapporto di falsa autonomia. La seconda nota è questa: ho capito il discorso fatto da Alessandra sul fatto che gli Ordini non sono sindacati e non sono casse, e che quindi certe rivendicazioni vengono seguite da loro con molta attenzione ma essi non possono fornire risposte dirette. È anche vero che va iniziata una riflessione seria sul fatto che le false autonome e i falsi autonomi sono persone che molto spesso firmano un progetto ogni dieci anni, e questo riguarda gli Ordini in modo diretto e frontale.

Noi siamo convinti che gli Ordini e il Consiglio Nazionale rivestano un ruolo di presidio professionale e culturale del lavoro degli architetti, e noi stessi ci troviamo spesso a partecipare con interesse alle iniziative che gli Ordini propongono; però credo che gli Ordini stiano iniziando a interrogarsi a fondo sul patrimonio di iscritti, che adesso sono molto numerosi ma che effettivamente una riqualificazione più precisa dei rapporti di lavoro metterebbe in seria discussione. Se da 157.000 iscritti agli Ordini ipotizziamo un gettito annuo di quote che va dai 20 ai 30 milioni di euro, una giovane o un giovane che firmano un progetto ogni cinque o dieci anni comincerà a chiedersi: “perché sono iscritto?”. Tutto questo va discusso con gli Ordini prima che sfugga totalmente di mano. C’è una grande consapevolezza giovanile di questa condizione, senz’altro molto maggiore rispetto a cinque o dieci anni fa: c’è un dibattito pubblico che è sotto gli occhi di tutti.

Alessandra Ferrari, CNAPPC

Sarebbe bello che questa discussione andasse avanti per ore: quando c’è la possibilità di confrontarsi è un arricchimento per tutti. Anzi, rinnovo la possibilità di portarla avanti.

Non è che gli Ordini siano insensibili: l’Ordine di Milano ha svolto il proprio lavoro, di cui lunedì prossimo verranno presentati gli esiti. Ci sarà un vademecum e questo percorso andrà avanti. Tutto questo, attraverso gli Ordini, diventerà una proposta, e noi la porteremo avanti se arriverà da parte di tutti gli Ordini d’Italia, o almeno della maggioranza, per poterla votare in conferenza. Va poi fatto un ragionamento culturale, e non perché io faccia parte del Dipartimento Cultura: c’è una battaglia culturale che dobbiamo fare tutti ed è quella per la parità di genere. Il contratto tra uomini e donne è uguale però di norma lo stipendio femminile è più basso degli altri. È la stessa battaglia da portare avanti nella rappresentanza: la regola dice di avere lo stesso numero di consigliere e consiglieri, poi però solo il 30% dei presidenti di Ordini sono donne. Le battaglie culturali ci sono e sono tante: è una battaglia culturale il rapporto paritetico di lavoro, che dia garanzie sullo spazio, sul tempo, sulla modalità di espletamento. Anche qui si parte da una battaglia culturale, che poi diviene anche una battaglia normativa: se una legge è rispettata ma non sedimentata nella coscienza della popolazione, rischia di essere una battaglia persa.