PER UN LAVORO EQUO IN ARCHITETTURA
Negli ultimi dieci-quindici anni, in Italia e all’estero, hanno assunto una visibilità senza precedenti i problemi dello sfruttamento negli studi e nelle società di progettazione, della precarietà contrattuale, degli orari sregolati, del gender gap e della “trappola vocazionale” che segnano molte carriere fin dagli inizi. In questo quadro, è importante fare chiarezza su cosa intendiamo con lavoro equo, su come muoverci per ottenerlo e su come disinnescare i discorsi che lo promuovono solo in apparenza. Per noi, lavoro equo significa che chiunque partecipi al processo di ideazione e produzione dello spazio costruito, a partire dalle e dai tirocinanti e dalle persone più giovani, debba:
- ricevere un pagamento adeguato, cioè commisurato oltre che all’esperienza anche alla copertura delle proprie spese fondamentali di professione, vitto, alloggio, imposte e salute;
- avere una formula contrattuale che rispecchi senza ambiguità la propria posizione reale rispetto al committente o al datore di lavoro (freelance o titolare di studio, consulente, lavoratrice o lavoratore subordinato ecc.);
- godere di tutele universali efficaci sulla salute, sul trattamento di fine rapporto, sulla genitorialità, sulla disoccupazione ecc.
Per ottenere tutto questo, per noi valgono alcune linee d’azione fondamentali:
- spezzare l’isolamento: unire tutte le persone che non vogliono né sfruttare né essere sfruttate e permettere loro di agire in modo collettivo e solidale, attraverso incontri, iniziative pubbliche, tavoli di lavoro, redazione di documenti e richieste pubbliche;
- contrastare ogni forma di tirocinio gratuito o sottopagato, anche durante il percorso di studi;
- definire e diffondere tabelle salariali minime per lavoratrici e lavoratori subordinati (a livello contrattuale o in quanto false e falsi autonomi), e tariffe minime per libere e liberi professionisti singoli e associati;
- combattere tutte le forme di disparità basate sull’età, sul genere o sulla provenienza, soprattutto dove vengono utilizzate per differenziare il trattamento economico e le tutele offerte. Attivare, al contrario, percorsi specifici di rafforzamento di queste tutele, in aree critiche come l’inserimento lavorativo delle e dei giovani, i permessi di soggiorno legati al lavoro, la genitorialità e altre incombenze legate alla cura;
- promuovere nei luoghi di lavoro una cultura organizzativa attenta al benessere individuale e collettivo, attraverso una pianificazione che abbia come presupposto la precisa delimitazione del tempo di lavoro rispetto al tempo libero.
I discorsi e le iniziative che difendono solo in apparenza l’equità del lavoro in architettura sono solitamente riconoscibili dal fatto di contemplare in modo parziale e omissivo questi presupposti e queste linee d’azione. Per fare alcuni esempi: si promuovono formule contrattuali più trasparenti ma si tace sui tirocini gratuiti e sul salario minimo; si difende la qualità del progetto senza metterla in rapporto alla precarietà lavorativa che di fatto la pregiudica; si invoca la parità di genere senza entrare nel merito di tutele universali e paritarie sulla genitorialità e sulla cura; si fomentano ondate di indignazione verso studi che sfruttano, abuso del lavoro falso-autonomo o immobilismo istituzionale, ma non si indicano né si costruiscono pratiche concrete di solidarietà e azione collettiva, delegando tutto o quasi alla rabbia e alla denuncia individuale; si propone una cultura lavorativa organizzata ed efficiente senza difendere il diritto alla disconnessione e al tempo libero. Invitiamo lavoratrici e lavoratori in architettura a prendere parola pubblicamente e collettivamente, per costruire insieme e dal basso un futuro più equo per i mestieri della progettazione e della costruzione. Non esiste sostenibilità dove il lavoro non è equo.